Pubblicato 16/06/2017
L’etichetta “senza antibiotici”
Nel corso degli ultimi anni si è affermata la tendenza crescente tra le aziende di vendere carne “senza antibiotici”. Questa etichetta indica che la carne proviene da animali che non sono stati sottoposti a trattamenti antibiotici in nessun momento della loro vita o, in alcuni casi, solo per un certo periodo di tempo limitato.
Secondo l’ultimo report di EMA, EFSA e ECDC, il 71% degli antibiotici venduti in Italia viene somministrato agli animali. Le preoccupazioni dei consumatori rispetto a questo abuso di farmaci sono legittime e per questo l’espressione “senza antibiotici” è facilmente comprensibile e popolare presso il pubblico. Sapere quanti antibiotici vengono utilizzati in allevamento e la conseguente riduzione del loro uso da parte delle aziende è un segnale positivo. Tuttavia un approccio “senza antibiotici” non può essere posto come obiettivo a priori, né può essere una considerazione riferita solo a un periodo limitato della vita dell’animale; piuttosto l’approccio dovrebbe essere quello di mettere in atto tutte le modifiche necessarie al miglioramento delle condizioni di allevamento e, solo a posteriori, iniziare a prendere in considerazione una comunicazione “senza antibiotici” se si è verificato che in effetti nessun animale si sia ammalato e abbia necessitato di trattamenti farmacologici.
“Senza antibiotici” vuol dire benessere animale?
Molti pensano che l’eliminazione degli antibiotici da parte delle aziende implichi per forza una migliore qualità di vita per gli animali. Ma non è così: “senza antibiotici” non indica necessariamente un maggior livello di benessere per gli animali.
Anche se è chiaro che l'uso eccessivo di antibiotici in allevamento deve essere urgentemente affrontato, il tema principale deve essere quello della riduzione piuttosto che dell’eliminazione totale e, per raggiungere questo obiettivo, è necessario in primo luogo affrontare e mettere in discussione le caratteristiche fondamentali dei sistemi intensivi. Smettere semplicemente di usare antibiotici senza cambiare l'ambiente in cui vivono gli animali potrebbe non avere alcun impatto sul loro benessere o potrebbe addirittura avere un impatto negativo. Nel primo caso, per esempio, potrebbe capitare che l’assenza o la riduzione immediata di antibiotici siano compensate con alternative considerate "indispensabili" come pesanti regimi di vaccinazione e/o l'uso di prebiotici e probiotici, aspetti che per quanto possano tutelare la salute fisica degli animali, di base non affrontano le condizioni in cui vivono e, di conseguenza, il loro benessere.
Cure per animali malati e antibiotico resistenza
L’uso degli antibiotici non va demonizzato a priori: anche in un contesto di migliore benessere, gli animali possono ammalarsi, soprattutto quando sono giovani, ed è giusto che vadano trattati in maniera appropriata e tempestiva. In alcuni casi quello che può capitare è che, per avere in etichetta la dicitura “senza antibiotici”, gli animali che si ammalano potrebbero non venire trattati in maniera adeguata o, in caso di trattamenti a seguito della comparsa di una malattia, potrebbero venire rimossi dalla filiera per garantire, appunto, il “senza antibiotici”. Le conseguenze di questo tipo di approccio possono essere molteplici. Per esempio, ci può essere il rischio che gli animali malati non siano trattati o che lo siano ma in maniera tardiva, perché, se vengono spostati su una filiera che non è etichettata “senza antibiotici”, potrebbero subire una “svalutazione” e, di conseguenza, un guadagno minore per gli allevatori che, paradossalmente, verrebbero così incentivati a non curare i propri animali. Ma anche nel caso in cui gli animali ricevano le dovute cure e vengano di conseguenza spostati su una filiera “senza antibiotici”, questo spostamento rappresenta un grande stress, soprattutto per animali sociali come i suini: isolare singoli capi in recinti individuali e reinserirli successivamente in un gruppo con animali diversi da quelli con cui sono cresciuti fino a quel momento rappresenta una pratica stressante che può causare ulteriore sofferenza agli animali e aumentare la possibilità che si ammalino ancora.
Per arginare il problema dell’antibiotico resistenza, è necessario eliminare l’uso routinario e preventivo degli antibiotici. È questo tipo di uso sistematico e preventivo che contribuisce allo sviluppo di batteri antibiotico resistenti e che andrebbe eliminato. In questo quadro, è scandaloso che il Ministero della Salute non abbia ancora adottato provvedimenti vincolanti per il monitoraggio e la riduzione degli antibiotici in zootecnia, soprattutto considerando che l’Italia rimane il terzo consumatore europeo (cosa che noi, unitamente a una coalizione di altre 20 organizzazioni, stiamo sollecitando da mesi).
Per concludere, gli animali dovrebbero avere diritto a condizioni di allevamento che riducano al minimo la possibilità di ammalarsi. E queste non sono comunque mai quelle dei sistemi intensivi, in cui gli animali sono spinti al limite delle loro possibilità fisiologiche. In caso di malattia, i singoli animali malati dovrebbero ricevere il trattamento farmacologico tempestivamente, perché una mancanza, un’interruzione o un ritardo potrebbe comprometterne la salute e il benessere.
Per questo, i prodotti “senza antibiotici” negli attuali sistemi intensivi non sono di per sé una garanzia di benessere animale.
Per una questione di trasparenza, come CIWF riteniamo che le aziende che scelgono di utilizzare questa dicitura dovrebbero comunicare pubblicamente anche le precise misure e i miglioramenti che hanno adottato per giungere a un uso ridotto o all’eliminazione del farmaco.