Dopo avere denunciato il vero prezzo della carne economica in Farmageddon e svelato le conseguenze devastanti di agricoltura e allevamento intensivi in Dead Zone, Philip Lymbery, Direttore globale di CIWF, torna nelle librerie italiane con Restano solo sessanta raccolti (Nutrimenti, 2023). L’opera, un’intensa, appassionata inchiesta sulla minaccia che l’attuale sistema alimentare pone alla nostra stessa sopravvivenza, ha un inedito protagonista: il suolo.
La giornalista e autrice Sabrina Giannini, voce autorevole che da sempre si occupa di ambiente e sostenibilità, ha incontrato Lymbery lo scorso venerdì 14 aprile, presso la libreria Feltrinelli di Piazza Ravegnana a Bologna. Quella che ne è scaturita non è la solita presentazione editoriale, ma un confronto franco e avvincente che ha scandagliato sì i problemi, ma anche quale, o meglio, quali strade imboccare per guarire il nostro sistema alimentare malato. Se non esiste un’unica, semplice soluzione, è proprio perché per affrontare queste crisi dobbiamo abbracciare la complessità della natura ed essere pronti a rivoluzionare il nostro rapporto con il suolo.
Lungi dall’essere “semplice terriccio”, il suolo è un ecosistema complesso che pullula di vita. Nasconde infatti almeno un quarto di tutta la biodiversità del mondo, in una dimensione microbica e quindi invisibile all’occhio umano, ma non per questo meno fondamentale per il futuro del nostro cibo. Per oltre diecimila anni, suolo e umanità sono stati legati da un tacito patto di alleanza, un patto che, come dimostra Restano solo sessanta raccolti, è stato tradito dal dominio delle grandi aziende zootecniche.
Ritorniamo a un'agricoltura rigenerativa
Dalle campagne del Sussex ai mega-allevamenti degli Stati Uniti, Restano solo sessanta raccolti racconta di comunità agricole che hanno perso il loro legame con l’ambiente che le sostenta. Lymbery ripercorre l’ascesa delle grandi aziende agricole e del loro modello di produzione, basato sulla monocoltura e sull’utilizzo di insetticidi, fertilizzanti e diserbanti chimici. Tutte pratiche che, a breve termine, possono aumentare la produttività, impoverendo però sempre di più il suolo, tanto da arrivare a deteriorare il terreno a un ritmo tale che rischiamo diventi inutilizzabile nell’arco di una vita umana.
Sovrasfruttati, zeppi di sostanze di sintesi e arati all’eccesso, i nostri preziosi terreni stanno rimanendo senza vita, eppure è dalla loro salute che dipende la nostra sussistenza. “L'agricoltura industriale sta minacciando la cosa di cui abbiamo più bisogno per salvaguardare il nostro futuro, ovvero il suolo” ha dichiarato Lymbery, “Niente suolo, niente cibo, game over, fine dei giochi”.
Tra le pagine del libro incontriamo agricoltori che hanno sposato pratiche rigenerative e recuperato tradizioni locali, o allevatori che hanno riportato gli animali nei campi, riparando così la frattura tra coltivazione e zootecnia. Campioni di una rinascita delle campagne a partire da un'agricoltura rispettosa della natura, in cui gli animali possano provare la gioia di essere vivi.
Ripensiamo le proteine
Nutrire la popolazione mondiale in crescita rispettando i limiti del nostro pianeta richiede un ripensamento radicale del sistema alimentare, sia dal lato della produzione che del consumo. La cultura alimentare, e con essa il posto di carne e latticini all’interno delle nostre diete, sta già cambiando, ma non abbastanza in fretta: globalmente, è necessario ridurre il consumo di proteine di origine animale almeno della metà.
Una sfida ambiziosa, che richiede uno sforzo collettivo: “abbiamo bisogno che il governo e le aziende stabiliscano dei target di riduzione del consumo di carne e che incoraggino l'adozione di alternative, siano esse a base vegetale, siano la carne coltivata e altre innovazioni, come la fermentazione di precisione” ha aggiunto Lymbery durante l’evento di presentazione del libro a Bologna.
Restano solo sessanta raccolti ci porta infatti a conoscere nuove tecnologie agricole, che lasciano sperare in un prossimo futuro in cui potremo fare a meno dell’agricoltura industriale, ma anche nuove fonti di proteine, tra cui la carne coltivata. Al centro di polemiche e accese discussioni, quest’ultima ha il potenziale di produrre proteine di alta qualità, senza la devastante impronta ambientale degli allevamenti intensivi, e, chiaramente, senza la sua crudeltà sugli animali.
Lo stesso purtroppo non si può dire degli allevamenti di insetti, che soffrono degli stessi difetti strutturali imputabili agli altri allevamenti intensivi. “L’allevamento intensivo non produce cibo, lo spreca” ha precisato Lymbery, “perché dare da mangiare cereali agli animali negli allevamenti è uno spreco, a causa dello scarso rendimento in termini di calorie e proteine. Questo è vero per i manzi, i suini, i polli, le vacche, così come per gli insetti. Usando cereali adatti al consumo umano come mangime, l’allevamento di insetti spreca proteine e sostanze nutritive preziose”.
Rinselvatichiamo le campagne
Il posto degli insetti nel futuro del nostro sistema alimentare potrebbe essere un altro, come insegna l’incontro con agricoltori lungimiranti: da nemici della coltivazione a insperati alleati. Mettere fine alla nostra insensata guerra contro la natura significa quindi anche mettere fine alla nostra guerra contro gli insetti. Lymbery ci mette a confronto con la triste verità che, nel lasso di una vita umana, il nostro pianeta, da lussureggiante giardino dell’Eden è passato ad essere un mondo in declino, e al centro di questo declino c’è l’intensificazione di agricoltura e allevamento.
Se vogliamo salvaguardare i nostri suoli, dobbiamo lasciare spazio alla natura, a partire dalla biodiversità dei suoli stessi. Lymbery ha spiegato che “quando il suolo è in salute, in un terreno della dimensione di un campo da calcio dovrebbero trovarsi fino a quattro milioni di vermi e 13 mila specie di altri organismi. Se dovessimo mettere assieme tutta questa biodiversità, otterremmo una massa corrispondente a un elefante africano: 5 tonnellate. Il futuro del genere umano dipende da questo, dobbiamo riportare nel suolo l’elefante della biodiversità”.
E l’agricoltura rigenerativa, da questo punto di vista, è un’alleata di tutto rispetto. Se l’allevamento intensivo confina gli animali in capannoni per coltivare altrove i mangimi a loro destinati, impiegando fertilizzanti e pesticidi di sintesi che impoveriscono il suolo, l’agricoltura rigenerativa è tutto il contrario: “è lavorare in armonia con la natura, riportando gli animali all’esterno, dove possono contribuire alla rotazione delle colture”, ha precisato Lymbery.
Un accordo globale per il futuro del cibo
Quale modello di produzione alimentare adottare sembra essere il fulcro della questione, eppure il peso del sistema alimentare sulla crisi climatica ed ecologica è ancora oggi perlopiù ignorato dalle autorità. Lymbery ricorda come esistano già trattati internazionali sulla salvaguardia del clima e della biodiversità, ma come manchi un accordo globale per porre fine ad agricoltura e allevamento intensivi.
“Non abbiamo bisogno di produrre più cibo, né di produrre più proteine, abbiamo solo bisogno di iniziare a sprecarne di meno. Un ottimo modo di porre fine allo spreco alimentare è porre fine all'allevamento intensivo”, ha affermato Lymbery, che ha continuato: “L’allevamento intensivo spreca abbastanza cibo da sfamare quattro miliardi di persone, metà della popolazione umana attuale” e abbandonarlo a favore di un’agricoltura in armonia con l’ambiente è più urgente che mai.
Restano solo sessanta raccolti dipinge un quadro drammatico e inquietante, seminando al contempo i semi della speranza. “È certamente un libro sull’urgenza, ma principalmente è un libro sulla speranza”, come lo ha descritto il suo autore, perché traccia la rotta per condurre l'umanità a una nuova primavera, a partire dal meglio della cultura alimentare in Italia e in tutto il mondo. L’arrivo di una nuova, fertile stagione dipende dalla salute dei nostri ecosistemi, e tutto parte dal suolo.
Tutti i proventi dei libri di Philip Lymbery sono destinati a Compassion in World Farming.