L’influenza aviaria continua a mietere vittime fra gli animali selvatici. L’Alaska Department of Environmental Conservation ha registrato per la prima volta un orso polare fra gli animali uccisi dall’influenza aviaria. Lo scorso anno, noi di CIWF abbiamo più volte denunciato la minaccia che il virus della influenza aviaria altamente patogena (HPAI) rappresenta per gli animali selvatici.
Il ruolo degli allevamenti intensivi
Negli ultimi due anni, si stima che quest’ultimo ceppo di influenza aviaria abbia ucciso milioni di uccelli selvatici. Eppure, fino a pochi anni fa, l’influenza aviaria che colpiva i volatili selvatici causava loro per lo più pochi danni.
Cosa è cambiato? Quando il virus entra nei capannoni degli allevamenti avicoli – spesso portato da scarpe, abbigliamento o strumentazione contaminati degli operatori – ha maggiore probabilità di diffondersi ed evolversi. È infatti al loro interno che è emerso per la prima volta l’antenato del ceppo attuale dell'HPAI. Nel tempo, si sono sviluppati ceppi più letali del virus, diffondendosi anche fra i volatili selvatici.
Gli allevamenti intensivi, in particolare, creano le condizioni ideali per la diffusione della malattia e per la comparsa di nuovi ceppi altamente nocivi, fornendo al virus un costante ricambio di ospiti e permettendo alle infezioni di diffondersi velocemente fra animali ammassati a migliaia nei capannoni, indeboliti dalle pessime condizioni di allevamento. Dal 2021, oltre mezzo miliardo di volatili allevati a scopo alimentare sono morti o sono stati abbattuti a livello globale a causa dell’influenza aviaria.
Specie a rischio
L’orso polare morto in Alaska non è la prima vittima fra i mammiferi di questo pericoloso virus. La patologia si è già diffusa anche tra altri animali come lontre, volpi, delfini, leoni marini e visoni, e ha sviluppato l’abilità di diffondersi da un visone all’altro. Proprio di questi giorni è la notizia di casi riscontrati anche fra le foche antartiche.
Va aggiunto che quelli elencati in precedenza sono casi e decessi accertati e che il calcolo del numero di animali selvatici uccisi dall’influenza aviaria è una cifra al ribasso. Ciò significa che, se l’orso polare in Alaska è la prima vittima accertata della sua specie, è altamente probabile che non sia né la prima in assoluto, né l’unica.
Il contagio di specie a rischio di estinzione, come l’orso polare e la lontra della Patagonia, è un campanello d’allarme sul terribile impatto che questo virus potrebbe avere su interi ecosistemi. Non sono al sicuro neanche gli angoli più remoti del pianeta: focolari di HPAI sono stati registrati anche in Antartide, allarmando gli esperti sul rischio di contagio fra le colonie già in declino di pinguini.
“La notizia della prima morte accertata di un orso polare a causa dell’influenza aviaria è tragica, ma purtroppo non inattesa,” commenta Catherine Jadav, responsabile della ricerca nel nostro team internazionale. “L’ultimo ceppo di influenza aviaria, sin da quando è emerso nel 2021, ha causato la morte di oltre mezzo miliardo di volatili allevati, si stima milioni di uccelli selvatici e anche una crescente varietà di mammiferi, destando serie preoccupazioni per la conservazione di molte specie. Questo virus, originato in allevamenti di pollame, sta causando devastazione non solo fra gli uccelli allevati, ma anche nella fauna selvatica, minacciando interi ecosistemi.”
La salute umana in pericolo?
L’Organizzazione mondiale della sanità animale (WOAH) sta monitorando con attenzione i casi di HPAI fra i mammiferi, e non solo per misurare l’impatto sulla fauna selvatica. Anche la salute umana è a rischio.
Al momento, i casi di influenza aviaria fra le persone sono riconducibili a uno stretto contatto con pollame infetto o ambienti contaminati dal virus. Più contagi di questa natura si ripeteranno, maggiore sarà il rischio che il virus evolva e acquisisca la capacità di diffondersi per contagio diretto fra le persone. “È generalmente riconosciuto che l’attuale sistema di allevamento intensivo aumenta il rischio di malattie sia per gli animali che le persone,” ci spiega la Dott.ssa Jadav.
Un report dell’International Union for Conservation of Nature, difatti, sostiene “un modo certo per ridurre a livello globale il rischio di zoonosi e malattie infettive… è ridurre la dipendenza da sistemi di produzione alimentare basati sull’allevamento intensivo.
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